San Francesco d’Assisi

L'omelia del nostro vescovo Carlo

E’ stata celebrata, con la santa messa presieduta dal nostro vescovo Carlo, la solennità di san Francesco d’Assisi, patrono d’Italia. Ecco l’omelia pronunciata da Mons. Ciattini presso la chiesa dell’Immacolata di Piombino Carissimi fratelli e sorelle,
un saluto a tutti voi, al nostro sindaco e a tutte le autorità civili e militari presenti. Un abbraccio colmo di gratitudine ai nostri frati per quanto hanno fatto e stanno facendo al sevizio della nostra Piombino.
Raccontare san Francesco, o meglio, metterci in ascolto di lui che ci parla di Dio e ci racconta della sua avventura umana e cristiana non è cosa facile e il rischio di cadere nella vanità delle parole è grande.
Solo un clima di preghiera ci permette di contemplare ciò che Dio opera nella vita dei suoi amici e familiari, dunque dei suoi santi.
È la preghiera che ci rende capaci di ascolto. La preghiera, infatti, è ascolto. Come scriveva S. Kierkegaard: «La vera situazione della preghiera non è quando Dio sta ad ascoltare […]. Il vero orante sta puramente in ascolto» (Diario 1840-1847, Brescia 1980, vol. III, p. 179). Che cosa possiamo dire di san Francesco? Come possiamo parlare dello splendore serafico di lui? Che dire di quella giovinezza che non ha conosciuto il disfacimento del tempo perché immersa in Dio, mentre sperimentiamo la fatica e il peso del tempo che passa e il decadimento che ci minaccia?
Come pure (che dire) di quella sua esplosione di speranza che ha infiammato il mondo, mentre viviamo l’amarezza di tante esperienze doloranti e non ancora metabolizzate o digerite e che ogni tanto si riaffacciano, riemergono e invadono mente e cuore facendoci sperimentare asprezza? Che cosa possiamo dire? Ripensando a Francesco credo che possiamo raccogliere questo insegnamento, una sorta di intuizione circa la di lui grandezza.  Una grandezza non definita da una particolare intelligenza, ma da un trasporto meraviglioso verso l’uomo di cui ha intuito la fatica e il dolore e ne ha sentito compassione.
Quella compassione e quella tenerezza che nascono dalle ferite della vita, frutto dei giorni tristi in cui sperimentiamo la sconfitta e che ci rendono capaci di essere uomini di consolazione.
Credo che la grandezza di Francesco consista nell’aver vissuto la verità di se stesso, arrendendosi alla sua debolezza, alla sua fragilità, al suo limite.  Li ha conosciuti, ma non è stato a difendere i suoi limiti e le sue fragilità, a giustificarle, in qualche modo a mascherarle, in qualche maniera a camuffarle. Si è arreso. E come l’uomo si arrende? In questo caso non è certo consegnarsi in mano del nemico vincitore. Delle piante o di altro «l’arrendersi»  sta a significare inflettersi agevolmente per ogni verso senza spezzarsi, come quando ci arrendiamo a chi ci ama, alle preghiere di quanti vogliono il nostro bene e vogliono salvarci da noi stessi. Spesso, invece, noi siamo uomini folli e prodighi che si perdono e si disperdono. Dimentichi di Dio e dei fratelli, giulivi e irresponsabili, incapaci di arrendersi, rimaniamo arroccati in quel deleterio egoismo che spesso sfugge alla nostra percezione col suo continuo tramutarsi. Una sorta di metamorfosi che assumendo mille sembianze, ci costringe all’equivoco, all’illusione di essere liberi, mentre rimaniamo sempre più prigionieri di noi stessi, smemorati. Oggi, san Francesco ci invita a ridestarci alla memoria di Dio. Solo il Signore, infatti, può liberarci; ma noi dobbiamo renderci conto che siamo prigionieri di noi stessi e non possiamo fare altro che arrenderci a Lui. Nessuno lo può fare al nostro posto! Nessuno può liberarci, neanche Dio, se non ci arrendiamo.
Francesco è questa creatura che si consegna nella verità al suo Creatore e si offre all’uomo come umile e leale compagno di viaggio.  Il serafico padre, infatti, sul monte della Verna, nella preghiera chiede: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?» (FF 1915). Francesco non solo chiede a Dio chi è Lui, ma anche di potersi conoscere davanti a Lui. Una ricerca continua che lo ha riempito della grazia di Dio.  Questo suo essere vero, sincero e autentico con se stesso lo ha reso gradito agli occhi di Dio e lo ha reso proposta per tanti uomini e donne. Il ricordo di lui, il celebrare la sua festa ci chiama a ripartire santamente audaci nel Signore; ritrovare speranza e rialzarsi.  
Credo che, almeno per quanto mi riguarda, possiamo raccogliere questo da Francesco: arrenderci ai nostri limiti, alle nostre fragilità, non difenderli, non camuffarli, ma chiedere al Signore di “affrontarli” e insieme a Lui caricarci di quella fatica, non di rado sinonimo di disprezzo, di umiliazione,  con la sua logorante pesantezza, dunque caricarci della Croce: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6,14).  Caricarci della debolezza umiliante delle molte cadute, accogliere la tenerezza della Veronica – quante volte abbiamo paura della tenerezza, non la crediamo, la rigettiamo – della generosa condivisione di Simone di Cirene. Quella via della croce che trova nel pianto delle donne l’occasione per consolare e ammonire: «Non piangete su di me, ma su voi stesse e sopra i vostri figli» (Lc 23,28). 
Quella via che termina sì, tra le braccia di Maria e sotto gli occhi di Giovanni, l’unico apostolo presente in quell’ora, ma che ha come meta la Pasqua eterna, la gioia e la vita senza fine, che Francesco testimoniò anche nell’ora più buia della sua vita. Francesco è il crocifisso, lo stigmatizzato e perciò l’amico dello sposo, il servo fedele «che nella sua vita riparò il tempio, e nei suoi giorni fortificò il santuario.  Ai suoi tempi fu scavato il deposito per le acque, un serbatoio ampio come il mare. Premuroso di impedire la caduta del suo popolo, fortificò la città contro un assedio» (Sir 50,3 5). Come abbiamo bisogno di santi! Come urge che ritorniamo al Signore nella verità e nella carità!
Siamo chiamati non ad essere padroni abusivi, pietre «morte» di un tempio presuntuoso che pensa di non dover essere riparato, di essere continuamente fortificato; altezzoso; critico e feroce nei confronti dell’ieri, maestro e “profeta” presuntuoso verso i giorni che verranno; ma siamo chiamati ad essere piuttosto operai umili e pronti alla fatica di scavare fino a trovare l’acqua, il bene, la fertilità in ogni uomo, stimolando in lui la voglia e il gusto della libertà a cui Dio lo ha chiamato e il cui sapore continuamente lo rende capace di verità.
La libertà proprio perché forza inestinguibile e incoercibile che alberga nel cuore dell’uomo, smaschera tutta la falsità e l’insufficienza di quei tentativi dell’uomo di ricostruire il vitello d’oro. Di costruirsi un dio a propria immagine e somiglianza. Di fare a meno dell’unico vero Dio. L’uomo contemporaneo si è accorto che se vuole riappropriarsi del proprio destino e non continuare a fuggirlo, se vuole veramente essere libero, non può farcela da solo. Ha bisogno di aiuto. Ha bisogno di una sapienza che non è solo di tipo tecnico, scientifico, culturale o politico. Una sapienza capace di svelare davvero chi è l’uomo e di che cosa ha bisogno. (Cfr V. POSSENTI, MBNews https://www.mbnews.it › 2009/02 › luomo-assediato-da…). 
E chi più di Francesco è stato un uomo libero? Libero da se stesso. Libero da ogni moto d’orgoglio, di egoismo, di avidità. Egli è senza pieghe interiori, trasparente, fratello; il fratello di tutte le creature, alle quali si unisce per cantare le lodi del suo Signore. Il rigetto del denaro, il bacio al lebbroso, il denudarsi e il rinunciare all’eredità paterna e tanti altri gesti, piccoli e grandi, compongono il cantico nuovo, il cantico dei redenti, dei liberati. + Carlo, vescovo

4 Ottobre 2024

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