La diocesi al Giubileo

Il messaggio del vescovo ai pellegrini

Sabato primo marzo, più di 600 fedeli dalle varie zone della nostra diocesi si sono ritrovati a Roma per attraversare insieme al nostro vescovo Carlo la Porta Santa della basilica di San Pietro (qui il racconto della giornata). Pubblichiamo nel file allegato e nel testo seguente il messaggio che il vescovo ha rivolto ai partecipanti.

La catechesi nella chiesa di San Gregorio VII
Momento di catechesi nella chiesa di San Gregorio VII

 

Carissimi fratelli e sorelle,
eccoci a Roma, eccoci pellegrini pronti a incamminarci verso il sepolcro dell’apostolo Pietro, quel sepolcro che è il centro della nostra fede perché lui ha pronunciato e pronuncia ancora oggi, nei suoi successori, quella parola che lo rende primo tra gli apostoli: “Tu sei il Cristo il figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Su quella professione di fede di Pietro si fonda la nostra fede, le nostre storie, i nostri cammini quotidiani.
Carissimi, partire, come dicono alcuni, è un po’ morire; perché l’uomo è attaccato alla sua terra, al suo luogo nativo, alla sua casa e alla sua famiglia, dove si radica e trova stabilità. Tante volte vi ho detto che la vita è come una scala; noi saliamo quegli scalini, uno dopo l’altro e là dove ci fermiamo, c’è come un’illusione ottica, che ci fa percepire in modo scorretto qualcosa che nella realtà si presenta diversamente. Infatti, nella nostra esperienza, quello scalino dove noi sostiamo a lungo diviene un pianerottolo, ci diviene familiare, e partire, anche per un breve tempo, è sempre una fatica.
Per partire, dobbiamo decidere di farlo, e decidere è sempre una grande fatica. L’uomo spesso vive di istinto, di costrizioni, e così passa la sua vita in una sorta di schiavitù. Decidere è un impegno quotidiano per divenire liberi, e divenendo liberi prendiamo sempre più forza per la fatica di una decisione. Scriveva Seneca a Lucilio: «Renditi certamente padrone di te, fà tesoro di tutto il tempo che hai. Conosci il mondo e lo spirito che lo abita […]. Sarai così meno schiavo del domani e reso padrone dell’oggi». Ecco un incitamento a diventare pellegrini in cerca della conoscenza. Seneca suggerisce quindi un pellegrinaggio esistenziale.
Per noi questo venire a Roma, seppur per un tempo breve, è un segno della nostra fede. È un venire alla tomba dell’apostolo Pietro per ritrovare le radici della nostra fede, per ripensare il nostro essere battezzati, e soprattutto ripensare la nostra speranza: «Che cosa speriamo?!».

Verso la porta santa

Carissimi tutti, «la speranza non è qualcosa di ingenuo, superficiale o immediato», come ci dice in maniera chiara il card. José Tolentino de Mendonça. Infatti, continua il medesimo, «nessun ragionamento sulla speranza sta in piedi se non accetta di integrare e riflettere anche il suo contrario: la prova della disperazione. Se la speranza si sottrae al confronto con l’enigma e la drammaticità della storia, è una speranza – saremo prima o poi obbligati a riconoscerlo – che non fa per noi. Quella che fa per noi, invece, è una speranza umile; una speranza aderente alle domande sempre più grandi di cui siamo intessuti, e immatura nel convivere con esse; una speranza purificata dall’esercizio di accettare che le nostre mani brillano vuote di risposte. Quella che fa per noi è una speranza che abita la forma di quello “sperare contro ogni speranza” (Rm 4,18) di cui ci parla l’apostolo Paolo. Una speranza che, alla luce del mistero di Cristo, non è altro che una speranza crocifissa» (Un giubileo dedicato alla speranza. Ma in che cosa speriamo? In AVVENIRE 24.XII.2024).
La speranza dunque è un albero, l’albero della croce che però fiorisce, fruttifica e dona un futuro di sazietà. Ecco che allora la speranza può essere luce alle nostre storie e alla storia in quell’alternarsi di gioie e speranze, di tristezze e angosce, che cadenzano, come ci ricordano i Padri Conciliari, i giorni degli uomini di oggi e di sempre. Quelle gioie, speranze, tristezze e angosce, che devono creare un’intima unione di noi cristiani con l’intera famiglia umana, per essere «intimamente solidali con il genere umano e con la sua storia» (Gaudium et spes, n. 1).

Pellegrini in piazza San Pietro


La storia umana è fatta di vittorie e sconfitte, felicità e paure, di momenti di intimità e di solitudine. Ci sono dei giorni segnati dall’angoscia per la malattia, delle sue strade minacciose, e di tutte quelle situazioni in cui noi ci disperdiamo e ci frammentiamo. Sono questi i giorni in cui dobbiamo aggrapparci, cercare la speranza, non farci inghiottire in un’abissale desolazione.
Tra le tante speranze ce n’è una grande; il cristianesimo ne sa dare una risposta e un nome: Gesù Cristo. L’occasione del Giubileo in definitiva, non vuole che portarci a un incontro con Lui. È una speranza che illumina. È un intessere le nostre giornate con lo stare con Lui, con l’ascolto della sua Parola, con l’andare alle sorgenti della sua Grazia, con lo sperimentare in quella forza e in quella luce un cammino verso quanti ci stanno accanto, e così tessere relazioni nuove capaci di vera speranza. Una speranza che è da Dio, ma che si riverbera in ogni comunità cristiana. Una speranza che si fa vivace in ogni famiglia, in ogni momento in cui l’uomo, alla luce di Cristo, cerca l’altro uomo per una fratellanza, per un uscire da quella solitudine che lo rende sempre meno uomo.
Il pellegrinaggio dunque a livello esistenziale, ma ad ogni livello, è sempre un uscire da sé, un andare all’altro. È sempre una ricerca di novità; è sempre un cercare quella luce che continua a brillare fino alla fine dei tempi: la luce di Betlemme verso la quale si incamminarono pastori, Magi e tanta gente che era in attesa. La luce di Gerusalemme, è quella luce di Pasqua che sprigionò nei giorni della croce e della resurrezione, e che continua a brillare e ci fa pellegrini. Questa luce ci rende capaci della fatica di partire, ci rende umili perché chiunque parte non può che essere mendicante.
Partire è sempre un perdere delle sicurezze. Partire per luoghi sconosciuti ha la necessità che qualcuno ci indichi la strada, che qualcuno ci accompagni nei giorni della fragilità, della debolezza. Partendo sogniamo che qualcuno ci accolga quando i nostri giorni declinano e si fa buio. Ma sappiamo che il Signore diviene il Viandante tra i viandanti, Pellegrino tra i pellegrini; Egli è la nostra sicurezza, cammina con noi, ci sostiene, ci accoglie, ci illumina. Con la sua incarnazione ha fatto proprio tutto questo. L’Anno Santo infatti celebra l’incarnazione.
A tutti l’auguro di un cammino nella speranza!

Il vescovo attraversa la porta santa
I sacerdoti che hanno concelebrato la Messa all’altare di San Pietro

3 Marzo 2025

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