Carissimi,
oggi, nel giorno dell’Epifania, come in ogni festa o solennità della Chiesa, dobbiamo domandarci: che cosa celebriamo? A suggerircelo è la preghiera di colletta, dove si dice che in questo giorno Dio ha rivelato alle genti, con la guida della stella, il suo unico Figlio, e si chiede – affinché si possa vivere, realizzare e godere quello che celebriamo – di condurre benigno anche noi, che lo abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della sua gloria.
Il Mistero del Natale, il Verbo, fatto carne nel seno della Vergine Maria, nato a Betlemme, travalica i confini di Israele, raggiunge uomini del lontano Oriente; nel segno della stella li illumina e quella luce diviene cammino per l’incontro che trasforma tutta la loro vita. Il partire perché hanno visto la sua stella – decisione sicuramente sofferta – la fatica di un cammino; l’ansia di perdersi e di non raggiungere la meta; il venir meno di quella luce del cielo; l’incontro con un Erode che non si rallegra per quella nascita, ma resta turbato e organizza l’ennesima riunione dei “ capi dei sacerdoti e dagli scribi del popolo”, che interrogano le Scritture, danno risposta, indicano la via, ma non si incamminano, alla fine, si trasforma, per questi tre uomini, in una gioia grandissima quando la stella, che avevano visto spuntare nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo, dove si trovava il bambino. È la gioia di quanti si fanno compagni di viaggio di questi cercatori dell’Eterno, che si allietano alla notizia che è nato il Re dei Giudei e partono, vincendo il turbamento di Erode e di tutta Gerusalemme.
Oggi, celebrando questo mistero, siamo tutti chiamati a partire per incontrare il Signore. La luce della sua parola ci chiede di uscire da noi stessi, dal nostro ripiegarsi, dal nostro amministrare il nostro nulla o addirittura il nostro peccato, dal progettare la nostra vita voltando le spalle a quella luce. Quale dono grande il mistero che celebriamo, un mistero di amore e di vita eterna.
Il Dio fatto uomo ci strappa dalla opacità del quotidiano, del finito, delle occasioni perse e dei rimpianti lagnosi, dando ai nostri giorni, al nostro faticare e soffrire sulla terra, la luce e la gioia della meta eterna, facendoci pregustare e assaporare, già e non ancora, la beatitudine e la pace. Ecco la voce del profeta: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te”. Una esortazione, quasi un comando di “risorgere”, di bandire ogni rassegnazione, “poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te” (Isaia 60, 1-2). Veramente questo giorno diviene l’oggi, il momento favorevole, per accogliere Cristo luce del mondo
apparso nella nostra carne mortale, che ci ha rinnovati con la gloria dell’immortalità divina (cfr. Prefazio dell’Epifania).
Oggi dobbiamo domandarci: dove siamo? Dove ci siamo coricati e accomodati? Quali tenebre ci paralizzano e non ci rendono capaci di vedere? La tranquillità ingannatrice del buio, come sottolineava papa Francesco, all’Angelus dello scorso 4 gennaio, deve essere vinta, insieme alla paura antica di Erode. Quella paura di cui la liturgia vespertina della odierna solennità stigmatizza: Perché temi Erode il Signore che viene? Non toglie i regni umani chi dà il regno dei cieli. Altra è la paura che noi cristiani dobbiamo avere. Quello che dobbiamo temere è il rischio che si fa maggiormente minaccioso mentre invecchiamo e siamo tentati di accomodarci nella Chiesa, di muoverci da padroni, da “imparati”. E’ il rischio di cui ci dice il Santo vescovo di Ippona. Scrive, infatti, Agostino: “Nel cercare la città nella quale era nato colui che desideravano vedere e adorare, fu per essi necessario informarsi presso i capi dei Giudei. E questi, attingendo dalla sacra Scrittura che avevano sulle labbra, ma non nel cuore, presentarono, da infedeli a persone divenute credenti, la grazia della fede, menzogneri nel loro cuore, veritieri a loro proprio danno. Quanto sarebbe stato meglio, infatti, se si fossero uniti a quelli che cercavano il Cristo, dopo aver sentito dire da essi che, veduta la sua stella, erano venuti desiderosi di adorarlo? Se li avessero accompagnati essi stessi a Betlemme di Giuda, la città che avevano ad essi indicato seguendo le indicazioni dei Libri divini? Se insieme ad essi avessero veduto, avessero compreso, avessero adorato? Invece, mentre hanno indicato ad altri la fonte della vita, essi ora sono morti di sete” (Sermo 199) .
“La tua luce, o Dio, ci accompagni sempre e in ogni luogo”, è l’ultima accorata invocazione che la Chiesa innalza nella liturgia eucaristica di questo giorno, prima di sciogliere l’assemblea che ha celebrato il Sacrificio di Cristo. Quel sacrificio che è mistero di croce e di risurrezione e di cui siamo stati fatti partecipi. Mistero che non ci è dato di capire, ma di contemplare e gustare con fervente amore. L’amore di un Dio fedele e geloso delle sue creature.
Questo “mistero” della fedeltà di Dio costituisce la speranza della storia. “Certo”, diceva papa Benedetto, “esso è contrastato da spinte di divisione e di sopraffazione, che lacerano l’umanità a causa del peccato e del conflitto di egoismi. La Chiesa è, nella storia, al servizio di questo “mistero” di benedizione per l’intera umanità. In questo mistero della fedeltà di Dio, la Chiesa assolve appieno la sua missione solo quando riflette in se stessa la luce di Cristo Signore, e così è di aiuto ai popoli del mondo sulla via della pace e dell’autentico progresso (Omelia in occasione della Cappella Papale nella Solennità della Epifania del Signore, 2008).
Per far questo è necessario ritornare ad essere discepoli del Signore.
Uomini e donne che stanno con Lui e vivono di Lui.
Scriveva il Beato Paolo VI: “La Chiesa resta nel mondo, mentre il Signore della gloria ritorna al Padre. (…) Ed è appunto la sua missione e la sua condizione di evangelizzatore che, anzitutto, è chiamata a continuare. Infatti, la comunità dei cristiani non è mai chiusa in se stessa. In essa la vita intima – la vita di preghiera, l’ascolto della Parola e dell’insegnamento degli Apostoli, la carità fraterna vissuta, il pane spezzato – non acquista tutto il suo significato se non quando essa diventa testimonianza, provoca l’ammirazione e la conversione, si fa predicazione e annuncio della Buona Novella. (…) Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare «le grandi opere di Dio», che l’hanno convertita al Signore, e d’essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo” (Evangelii Nuntiandi, 15).
E per far questo, sentiamo sinceramente di dover convertire anzitutto noi stessi alla potenza di Cristo, che solo è capace di fare nuove tutte le cose, le nostre povere esistenze anzitutto.
A tutti il mio augurio di ogni bene e pace e gioia nel servizio di Dio e di ogni uomo.
+ Carlo, vescovo