Celebrare la solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo è dire a Dio il nostro grazie per il dono del suo Figlio Unigenito, mentre siamo chiamati a sperimentare come l’amore è qualcosa, meglio Qualcuno che si fa presenza tra noi e per noi.
E questo lo dobbiamo annunciare gli uni agli altri, dirci e ridirci una bella notizia, una novità che ci strappa dalle tante tentazioni di scoraggiamento. Un ripeterci senza stancarci che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
Una presenza che ci spinge, ci sostiene e ci custodisce nel nostro uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. È la parabola della vita di ogni uomo, un uscire che tutti conduce per il grande e spaventoso deserto, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata e senz’acqua. Eppure proprio tra tanta fame di libertà, di pienezza di vita e tanta sete di amore, di senso, di una ragione per vivere e per morire, Dio Padre ci soccorre e fa sempre sgorgare per noi l’acqua dalla roccia durissima; e ci nutre di manna. (Cfr. Dt 8,14b-16a)
È l’esperienza di ciascuno di noi nella ricerca di essere liberati e salvati. Salvati dalla morte, da ogni tipo di morte per fame o per sete; per mancanza di cibo, di vestiti, di qualcuno da amare o da essere amati, un percorso nell’indigenza e forse nella disperazione se non sapessimo di una presenza.
E quale presenza?
Quella di un Dio che, per amarci, ha preso un corpo, ha preso la nostra carne. Per questo abbiamo potuto vedere, ascoltare, toccare… (1Gv 1,1-3). Dio non ha amato a parole, ma si è fatto carne, ha avuto bisogno di un corpo per donarsi all’umanità, per salvarla.
Nel brano del Vangelo che abbiamo letto, i termini che ricorrono più spesso sono quelli legati alla semantica del vivere, della vita: Gesù dice di essere il pane vivo, per cui chi ne mangia avrà la vita.
Con ciò l’evangelista ci dice che Gesù possiede una qualità di vita diversa da quella semplicemente biologica, naturale. Quest’ultima porta i segni della morte, ed è destinata a finire. Ha bisogno di nutrirsi, ma il nutrimento non basta ad evitare la morte. Quella di Gesù, al contrario, non conosce la morte.
Anch’essa ha bisogno di nutrirsi di qualcosa, perché ogni vita ha bisogno di essere alimentata, ha bisogno di un nutrimento. La vita porta in sé i segni di questa sua verità costitutiva, quella per cui ci è donata e continuamente vive di un dono.
Ebbene, Gesù si nutre della relazione con il Padre, e vive di Lui (Gv 6,57). E noi abbiamo bisogno della relazione con Cristo, di nutrirci di Lui.
L’amore di Dio per noi arriva fin qui. Non solo Lui si è fatto vicino, si è fatto fratello che cammina con noi.
Molto di più. Si è offerto a noi come Nutrimento della vita, e attraverso la simbolica del nutrimento ci chiama a diventare con Lui una cosa sola, a fare nostra la Sua stessa vita, a vivere di Lui, come Lui vive del Padre.
Nell’eucaristia Gesù si fa pane, alimento di vita, perché quanti poi lo accolgono siano capaci a loro volta di farsi pane, alimento di vita per gli altri. Non basta dare il pane alla gente, ma occorre farsi pane per la gente. Ecco perché l’evangelista usa quest’espressione: “Date loro voi da mangiare”. Questo è il significato profondo dell’eucaristia. Nell’eucaristia non si dà soltanto del pane, ma ci si fa pane per gli altri. Farsi pane significa che non puoi più vivere per te, ma per gli altri. Significa che devi essere disponibile, a tempo pieno. Quando si trattiene per sé quello che si ha sembra insufficiente; quando si condivide invece si crea l’abbondanza. Farsi pane significa che non puoi più vivere per te, ma per gli altri. Significa che devi essere disponibile, a tempo pieno. Significa che devi avere pazienza e mitezza, come il pane che si lascia impastare, cuocere e spezzare. Significa che devi essere umile, come il pane, che non figura nella lista delle specialità; ma è sempre lì per accompagnare. Significa che devi coltivare la tenerezza e la bontà, perché così è il pane, tenero e buono. Essere pane per gli altri è un’impresa impegnativa, anche se a volte lo siamo senza accorgercene, perché pensiamo di dover fare cose straordinarie, invece è nella semplicità del servizio che Dio ci guarda e ci reputa importanti.